Merton - STAUROPOLIS

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D'altraParte
  SMETTILA DI CERCARE DI "ADATTARTI"
Leo Di Simone, La Trappa in Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell'era postcristiana.
Capitolo estratto dall'opera di prossima pubblicazione, in anteprima assoluta per stauropolis.com


 
 Il retaggio di Rancè
 
Tutti i monasteri dei trappisti sono dedicati alla Madre di Dio e tutti i monaci che professano obbedienza, povertà, castità, stabilità, conversione dei costumi secondo la regola di san Benedetto e le costituzioni di Citeaux, antepongono al loro nuovo nome quello di Maria. Il nome di «Trappisti»  che l’ordine monastico scelto da Merton si attribuisce è in realtà un soprannome distintivo. Il suo vero titolo è «Cistercensi della Stretta Osservanza», per distinguersi da quelli della «Comune Osservanza». Si tratta di una lunga storia di riforme monastiche iniziate col Medioevo e sempre susseguitesi lungo i secoli, si potrebbe dire fino ad oggi, fino al periodo del postconcilio almeno. Fino al Concilio Vaticano II quello dei trappisti era, insieme a quello certosino, l’ordine monastico più rigido nella Chiesa cattolica e, per certi versi, la graduatoria non è mutata ancora oggi. Assoluto silenzio, preghiera, mortificazioni, lavoro, obbedienza sine mora, come dire senza discussioni. Una confederazione di monasteri retti localmente da un abate e con a capo un abate generale con poteri assoluti, residente a Roma.
 
Ai tempi di Merton questo capo assoluto dell’ordine era il francese dom Gabriel Sortais col quale Merton ebbe più d’uno “scontro ubbidiente” e che morì qualche anno prima di lui. Riposa nel cimitero del monastero delle Tre Fontane, alle Acque Salvie, luogo del martirio di san Paolo. Un uomo tutto d’un pezzo, un patriota che aveva combattuto contro i tedeschi durante la seconda guerra mondiale, entrando in azione con la venticinquesima divisione motorizzata francese. Ferito sul campo a Lilla era stato fatto prigioniero dai tedeschi e internato in un campo di detenzione in Prussia. Tornato alla vita monastica dopo la guerra, era stato abate di Bellefontaine prima di essere eletto alla suprema carica dell’ordine che a quel tempo portava ancora un’impronta fortemente francese.
 
Perché francese era stata la sua origine, sul finire dell’XI secolo. Tutto cominciò in un luogo solitario e incolto, nei pressi di Digione, sotto la giurisdizione del duca di Borgogna. Un vecchio benedettino, quasi novantenne, Roberto abate del monastero cluniacense di Molesme, aveva aderito al movimento di riforma della vita benedettina che contemplava un ritorno all’autenticità della regola e l’abbandono delle mollezze e delle ricchezze del potente Ordine benedettino di Cluny. Con un gruppo di ventuno monaci Roberto abbandonò l’antico monastero e si recò in quel luogo desolato che traeva il nome dalle canne, cistels in dialetto borgognone, che abbondavano tra quelle desolate paludi, da cui il nome latino di Cistercium e l’aggettivo cistercensis. Era la domenica delle palme del 1098 quando il monastero, che consisteva in un raggruppamento di baracche, fu fondato. Ma i monaci di Molesme si appellarono a Roma per avere indietro il loro vecchio abate e così avvenne. San Roberto fu il fondatore dei cistercensi ma morì monaco cluniacense.
 
Merton si appassionò, come abbiamo accennato, nel narrare quella storia incredibile ne Le acque di Siloe[1]. Storia di stoica santità che culminerà all’ombra della gigantesca figura di san Bernardo di Clairvaux che sarà considerato il vero padre dei cistercensi in quanto costellò l’Europa di quei monasteri di benedettini “bianchi”. I monaci vestirono di bianco per il semplice fatto che la lana di quel colore, grezza e “non tinta”, costava meno; dunque in ragione della povertà. Bernardo che aveva appena otto anni quando quella baraccopoli monastica venne fondata vi si presentò nel 1112, accompagnato da quattro fratelli carnali, un cugino, uno zio e uno stuolo di amici; in totale una trentina di persone che costituirono il vero lievito fondante dell’Ordine nascente. In capo a tre anni, nell’estate del 1115, Bernardo e i suoi compagni furono inviati da santo Stefano Harding, abate di Cîteaux, a fondare la terza filiale, oltre l’altipiano di Langres, nella valle dell’Aube. Sulla riva sinistra del fiume trovarono una valle che penetrava per circa un miglio tra le colline che la chiudevano su tre lati. Si apriva però a Sud  e ad Est, ricevendo la luce del sole per tutta la giornata. Era una valle chiara e la chiamarono Clairvaux. Bernardo con i suoi monaci disboscò, bonificò, spianò, costruì l’abbazia seguendo i canoni di quell’elegante sobrietà che sarà la nota distintiva dell’estetica cistercense e che ebbe in lui il mistico esteta. Fino alla morte, avvenuta nel 1153, fu abate e vero autore della riforma della vita contemplativa; una vita che rivide dal profondo delle dinamiche spirituali, gettando le basi di quella che oggi potremmo definire psicologia della contemplazione.
 
Ma dopo Bernardo, col passare del tempo, a più riprese, la forma si corruppe ancora, quasi per naturale entropia istituzionale o/e spirituale. Bernardo era stato cosciente dell’ineluttabilità di quel fenomeno e lo aveva sintetizzato nella frase che denota la necessità di un costante lavoro di vigilanza anche all’interno della Chiesa. Lavoro diuturno: «Reformare deformata».
 
La forma particolarmente rigida che l’ordine assunse nel XVII secolo la si deve ad un libertino convertito, figlioccio del cardinale Richelieu e figlio del segretario della regina Maria de’ Medici. Nobile e cortigiano, Armand Jean Le Bouthillier de Rancè, così si chiamava, era stato nominato da Luigi XIV «abate commendatario» di diverse abbazie, tra le quali quella di Notre Dame de la Trappe. Delle abbazie percepiva cioè solo le rendite ma non era monaco. Il re gratificava i nobili con le rendite della Chiesa e depauperava la Chiesa per ottenere il consenso dei nobili. Avviato, secondo l’uso del tempo, alla “carriera ecclesiastica” sin da giovane, nel 1651 era stato ordinato prete, a venticinque anni, in attesa di impalmare qualche pingue e prestigioso vescovado per diventare poi, magari, cardinale e primo ministro come il suo padrino. Ottenne un dottorato alla Sorbona, risultando nella graduatoria di merito primo dove il poi celebre Bossuet risultò secondo. Non si capisce bene se per reali preclare virtù intellettuali o per via del “sangue blu” che dava precedenza su tutto. Viveva in ogni caso la vita consueta di nobile ecclesiastico tra cacce, feste, mollezze, amori passeggeri e leggeri e intrighi di corte. Quanto alla Messa si dice che «dicevala poco».
 
Sappiamo parecchio di lui per la Vie de Rancè, opera pubblicata nel 1844 e scritta dal romantico convertito Chateaubriand che con malcelato ed abile gioco di proiezioni racconta tutta la storia di quest’uomo che, travagliato dai dubbi, dai rimorsi e dall’insoddisfazione per la poca coerenza di vita, si reca un giorno a visitare per pura curiosità quella sua sperduta abbazia cistercense e ne resta folgorato, come Paolo sulla via di Damasco[2]. Decide così di farsi  monaco.  Distribuiti alcuni dei suoi beni ai legittimi eredi ed altri ai poveri, nel 1664 esprime la “professione monastica” e riceve la benedizione abbaziale. Diventava «abate regolare», cioè effettivo di Notre Dame de la Trappe. Da quel momento, senza perdere tempo, pone mano all’opera di riforma di un’abbazia ridotta quasi ad un cumulo di macerie dal punto di vista materiale e non meno disastrata da quello spirituale. Assetato di espiazione ricorda ai suoi monaci, quale programma di vita, la frase di san Bernardo: «Figlio mio, se sapessi quali sono i doveri di un monaco, non mangeresti un boccone di pane senza innaffiarlo di lacrime»[3].
 
Ciò che ha dominato in lui, a detta di Chateaubriand, che mostra per Rancè sentimenti di odiosa ammirazione, fu «un appassionato odio della vita». E chiosa, da buon letterato e da gran parruccone qual era, «epicureo dotato di fantasia cattolica» secondo la definizione di Sainte Beauve: «Ciò che è incomprensibile e sarebbe spaventoso se non fosse da ammirare, è l’insormontabile barriera che egli ha posto tra sé e i suoi lettori». Perché scrisse molto Rancè, ma «mai una confessione, mai egli fa parola di quel che ha fatto, dei suoi errori, del suo pentimento […] Insegna agli uomini, nella condotta da seguire verso i loro simili, una estrema durezza; nessuna pietà dei loro mali». Per essi instaurò il «regno delle espiazioni e redasse uno statuto per quel mondo, adatto a coloro che piangono […] e chiunque vorrà farvi dimora non deve portarvi che la sua anima: la carne non ha nulla a che fare là dentro»[4].
 
I monaci sono privati della parola, dello sguardo, del sonno, della famiglia, di tutto ciò che può risultare umanamente gratificante: cibo, igiene personale, tempo libero, affetti, interessi culturali, intelligenza. Ci si alza «alle due di notte per il mattutino; gli intervalli fra i rintocchi della campana saranno molto brevi, per togliere ogni motivo di pigrizia […] e non appena suona la campana per il lavoro tutti i monaci e i novizi andranno al lavoro assegnato con grande ritegno e intimo raccoglimento, considerandolo il primo castigo del peccato». Un solo pasto frugale in quaresima, alle quattro del pomeriggio, dopo quattordici ore di preghiere e duro lavoro. Regole tassative da osservare in ogni ambito della vita claustrale, dalle flexae per il canto dei salmi al divieto di restare soli «in luogo alcuno nell’oscurità»; fino all’usanza crudele di non comunicare ad alcun monaco il decesso di un proprio familiare. Si comunicava genericamente che il “padre di un monaco” era morto, così che ciascuno avesse potuto piangerlo come il proprio padre. Due volte alla settimana il necessario capitolo delle colpe: perché qualche sguardo incontrollato lo si gettava pure qua e là, qualche sillaba vagante schizzava spontanea dal cuore alle labbra, qualche traccia di umanità affiorava pure istintivamente e incontrollata nei confronti dei propri simili, del proximus. «Prima di accusarsi, tutti si prosternavano insieme e, alla domanda del superiore: Quid dicite? Ognuno rispondeva con voce piuttosto bassa: Culpas meas»[5].
 
Sulla sincerità e sull’utilità di simili usanze interverrà in maniera caustica la critica del Merton maturo e disilluso che ne metterà in luce l’aspetto meramente formale, arido, che nessuno spazio lasciava all’azione dello Spirito: «Evidentemente la vita monastica è nulla se non apre completamente un uomo allo Spirito Santo. Alla prova dei fatti, il genere di monaco che ha la testa reclinata fino a toccare il pavimento, di solito, all’atto pratico è il più dannato fascista che si sia mai visto. Ciò fu vero tanto per Solesmes quanto per Maria Laach; mi è stato detto che il primo era schierato con l’Action Française e che la seconda era favorevole a Hitler»[6].
 
In Francia, ai tempi di Luigi XIV, parallelamente alla prassi di libertinaggio della corte, si era in un tempo di rigidità religiose, nel clima fantastico ed esasperato degli sviluppi della Devotio moderna, corrente spirituale diffusasi in tutta Europa che fomentò l’interiorismo e l’individualismo religioso. Era il tempo del giansenismo con i suoi monasteri austeri sino all’inverosimile, e che tali dovevano essere perché il loro fine era essenzialmente espiativo. Nel 1640 il vescovo Giansenio aveva pubblicato l’Augustinus, il libro in cui sosteneva di aver rintracciato la vera dottrina di sant’Agostino: dopo il peccato di Adamo la volontà umana non è mai completamente libera, perché è sottomessa alla concupiscenza o alla grazia. Il vespaio teologico che il libro scatenò non è riferibile, per la sua complessità, in questa sede. In breve, tra condanne e difese accademiche la Francia si divise in due partiti, pro e contro le teorie di Giansenio. Quello che restò, nonostante tutto, fu una bassa considerazione dell’uomo che poteva solo patire per espiare i suoi gravi peccati. Armand Jean de Rancè, che ufficialmente non era giansenista semplicemente perché il re e Richelieu avversavano il giansenismo, ingabbiò in digiuni, penitenze e lavoro estenuante la regola benedettina già rivista dai cistercensi di Roberto di Molesme e Bernardo di Chiaravalle. Ne risultò un cenobitismo tetro, da bagno penale, dove la gioia e l’umanità avevano dovuto lasciare il posto alla penitenza e alla morte. La sua riforma era, in un certo modo, astratta e accademica, un fatto pensato dalla sua mente bisognosa di espiazione. Il lavoro, per esempio, del quale lui non aveva mai in vita sua avuto necessità per vivere, era solo una forma di penitenza e di umiliazione; Rancè era lontano dall’ideale sano e armonioso dei primi cistercensi che lavoravano perché poveri, ed erano poveri per amore di Dio, e vivevano unicamente per lodarlo e ringraziarlo, nella pace e nel silenzio. Quella che Rancè chiedeva a se stesso e ai suoi monaci era un’immolazione fisica e morale.
 
La conversione di Rancè avvenne sotto l’ala tetra di un pessimismo agostiniano dipinto con i colori foschi di Giansenio e lo stesso Chateaubriand non esita a pubblicare una lettera di Rancè, scritta nel 1676 al signor di Brancas, in cui l’abate dichiara di essere «persuaso che i giansenisti non hanno una cattiva dottrina». Ribadisce dunque il fatto che «essi sono nella comunione e nel seno della Chiesa, questa li considera come suoi figli, e di conseguenza io non posso e non debbo considerarli altrimenti che come miei fratelli»[7]. Nonostante lui ufficialmente si sentisse e si dichiarasse «nulla meno che molinista», seguace cioè teologicamente della tesi antigiansenista proposta dal gesuita Luis de Molina per conciliare con la libertà umana la prescienza di Dio e la necessità della sua grazia, tuttavia comprendiamo che in effetti attribuiva spazi molto ristretti alla libertà umana, accostandosi di fatto, in maniera inconfessata, al giansenismo.
 
Il suo monastero perciò, nonostante tutto, in virtù di noblesse, non fu perseguitato dal re come quello giansenista di Port royal e prosperò. Lui, d’altra parte, non si era esposto in dispute teologiche, come l’abate di Saint Cyran e Arnauld che incorreranno nelle ire di Richelieu e di Luigi XIV; si era tenuto in un rigido isolamento, lontano dai clamori sollevati dai molinisti contro i giansenisti, «in uno stato di sospensione fra gli uni e gli altri, senza avere legami con nessuno»[8]; prendendo le distanze, per convinzione profonda, maturata nel suo inumano isolamento, da tutto ciò che potesse consonare col nome della “cultura”. L’avversione che provava per la letteratura, dice Chateaubriand, corrispondeva al non voler indulgere alla libertà dello spirito umano. Gli studi erano banditi dalla Trappa, tanto da farlo sentire in dovere di scrivere ai suoi monaci, per giustificare questa posizione e per confutare le proposizioni di un altro monco erudito, il benedettino Mabillon che aveva osato provare che lo studio delle scienze è necessario alla condizione monastica: «vi confesso che ciò che più mi addolora nell’obbligo in cui sono di esprimervi il mio pensiero su questo argomento, al fine di preservarvi da un’opinione che mi è sembrata tanto pericolosa, è il fatto che io stimo e considero chi ha composto quell’opera uomo degno di una speciale raccomandazione così per la sua virtù come per la sua dottrina»[9]. Questo perché in gioventù lui stesso era stato uomo di lettere e da monaco era stato costretto a dare vita letteraria alla sua morte letteraria: un paradosso senza soluzioni.
 
L’opera in questione era il Traité des études monastiques del Mabillon in cui si proponeva di conservare e potenziare il tratto umanistico del monachesimo benedettino, perché, concludeva l’autore, «scriviamo dunque e componiamo libri finché vorremo, e lavoriamo per gli altri. Se non siamo presi da questi sentimenti, noi ci affatichiamo invano, e non trarremo dal nostro lavoro che una funesta condanna. Tutto passa eccetto la carità». Conclusione molto distante dalle convinzioni di Rancè che dal suo canto pensava fermamente: «Si vive per morire; il disegno di Dio, quando ci dà la gioia della luce, è di privarcene. Non si muore che una volta, non si riparano con una seconda vita i traviamenti della prima: quel che si è nel punto della morte lo si è per sempre»[10]. Non sapienza, scienza, cultura per sé e per “gli altri”; solo silenzio, lacrime e penitenza per l’espiazione dei peccati, per l’«apparecchio alla morte», senza intravedere nessuna luce.
 
Rancè, morto nel 1700, chiude il secolo di Pascal, Corbeille, Molière, Racine, La Fontaine, Turenne, Condé, Bossuet, lasciando alla Chiesa, con La Trappe, una comunità di cenobiti «perfettamente conformi a quelli che abitavano quell’eremo nel 1100; sembrano una colonia del Medio Evo dimenticata […] che l’ordine di Dio ha trasportato dall’undicesimo secolo al nostro», conclude il romantico Chateaubriand con più di una punta di compiaciuta apologetica e di ammirazione erudita: «La cripta di Sparta era per la persecuzione e la morte degli schiavi; la cripta della Trappe era per la persecuzione e la morte delle passioni»[11].
 
Altri monasteri seguirono l’esempio de La Trappe. Alcuni si confederarono e nacquero i Cistercensi della Stretta Osservanza. Una serie di riforme e confederazioni seguirono a quella di Rancè e il processo si concluse solo nel 1892, per volere di papa Leone XIII, quando i trappisti diventarono un Ordine autonomo. Merton descriverà il lungo processo nel 1949 ne Le acque di Siloe libro in cui narra anche la rocambolesca fuga dei trappisti dalla Francia dopo la Rivoluzione francese e il loro trapianto e crescita in America. Con l’intermezzo di una ulteriore riforma in senso rigorista ad opera di dom Agostino de Lestrange che fuggendo la Rivoluzione francese si acquartierò con i suoi monaci presso la ex certosa de La val Sainte, vicino Friburgo. Questi monaci crearono una «stretta osservanza» più stretta di quella di Rancé, con ulteriori restrizioni sul sonno e sul digiuno e un aumento del lavoro e delle devozioni. Studiando la storia delle riforme dell’Ordine Merton concluderà che «la vita dei monaci de La Val Sainte era così densa di attività, di preghiere orali e di devozioni supplementari che l’armonioso equilibrio della vita benedettina veniva distrutto e la meditazione personale, la contemplazione e la lettura spirituale venivano praticamente escluse dal quadro. Se il monaco non viene lasciato libero di comunicare personalmente con Dio nel silenzio, nella solitudine e nel raccoglimento, egli non diventerà mai un contemplativo»[12].
 
Una constatazione molto pertinente; una lezione che riprenderà qualche anno dopo sollevando il problema dell’attivismo a Gethsemani; pur dovendo riconoscere - e tutto il libro Le acque di Siloe ne è una testimonianza - che l’affaccendarsi dei monaci paragonabile a quello delle api in un alveare, la loro capacità di lavoro temprata alla fucina della rinuncia, del digiuno, dell’ascesi spirituale, della fede granitica e incrollabile, della personale abnegazione, in tanti momenti critici della storia dell’Ordine aveva rappresentato un’ancora di salvezza. Si deve alla dinamica determinazione di dom Agostino de Lestrange l’azzardo di cimentarsi in un’opera titanica per i suoi tempi: fondare  monasteri in alcune delle ampie, solitarie, inesplorate regioni dell’America del nord.
 
Nel 1803 partì da Amsterdam, con la sua benedizione, una “colonia” di una quarantina di monaci capeggiata da padre Urban Guillet, un trappista che aveva attraversato a piedi l’Europa al seguito delle rocambolesche fughe dei monaci dalle rivoluzioni e dalle soppressioni. Partirono per pura fede, in virtù de la sainte volonté de Dieu che più che un’espressione fatta era per i trappisti un abito mentale e morale. Un comandamento sempre pronunciato per bocca dei “superiori”. Partirono come il monaco indù Bramachari senza denaro e l’unica cosa che sapevano era «che sarebbero sbarcati in una città chiamata Baltimora. Dopo di che, Dio avrebbe detto loro che cosa dovevano fare»[13]. Sicuramente l’avrebbe detto al loro superiore! Ci vollero quarant’anni perché Dio realizzasse il suo “progetto trappista” mentre l’epopea americana di monaci bianchi è paragonabile all’esodo del popolo ebraico attraverso il deserto. La promessa di Dio cui bisognava prestar fede era: «Il deserto fiorirà!».
 
In fondo l’abbazia di  Gethsemani nacque davvero grazie alla capacità sovrumana dei trappisti di far “fiorire il deserto”.  Uno di tali deserti, fuor di metafora, si situava in una valle del Kentuky, molto calda d’estate e gelida in inverno. Ma chi aveva edificato Cîteaux o Clairvaux non aveva scelto certamente posti migliori. Il monastero di Gethsemani fu costruito nel luogo che durante la guerra civile americana fu denominato «Knob country» - zona delle alture – a poche miglia dal luogo dove nacque Abramo Lincoln. Un paesaggio di colline erte e boscose e pianure rocciose strette fra i monti. In quel luogo americano, familiare allo sguardo trappista per la sua rude austerità, i figli di quella generazione monastica salvata da morte sicura da dom Agostino de Lestrange, dopo aver attraversato l’oceano, percorso in lungo e in largo in treno, a cavallo, a piedi, in zattere di fortuna le praterie, le strade e i fiumi di un continente in prevalenza ancora disabitato, dopo incidenti, epidemie, defezioni, morti, contrattempi e disastri degni delle migliori epopee, dopo anni di ricerche e tentativi finalmente si fermarono. «Il numero e il carattere degli incidenti che accompagnarono i monaci in tutto il loro viaggio è sufficiente testimonianza dell’attività del nemico di ogni impresa del genere. Il diavolo non ama i monasteri, specie quelli contemplativi. Per un centinaio d’anni egli ha cercato di ostacolare Gethsemani, e nei primi tempi la battaglia non è stata completamente a suo vantaggio» annota Merton[14].
 
Colui che da ultimo diede filo da torcere al demonio fu padre Eutropio Proust, trappista della stessa tempra di padre Urban Guillet e continuatore di quella missione impossibile. Un uomo piccolo e sottile, ma energico, di pronta intelligenza, con fantasioso spirito di iniziativa, tenace come poteva esserlo un contadino cattolico della Vandea. Aveva trentanove anni, due di professione solenne ed era stato nominato priore nell’abbazia di Malleray, una delle più fiorenti di Francia. Un’abbazia che non solo riuscì a sopravvivere ai moti rivoluzionari francesi del 1830 che avevano soppresso monasteri ed espulso monaci da tutto il territorio nazionale; ma che passata la burrasca rivoluzionaria riuscì ad implementare il suo organico al limite delle sue capacità. Così, sia per esuberanza numerica, sia per il fiuto di altre possibili soppressioni che l’instabile clima politico europeo poteva facilmente far prevedere - si era nel 1848 - i monaci pensarono di insistere sul  progetto di espansione nel Nuovo Mondo già iniziato nel 1803 e i cui risultati erano stati quelli di avere un’idea un po’ più chiara della complessa geografia americana e di aver fatto conoscere alle popolazioni incontrate durante le peregrinazioni tra il Kentucky e l’Illinois, la Pennsylvania e il Maryland  l’esistenza di quegli strani monaci che erano i trappisti, capaci di sopravvivere nelle condizioni più estreme e sopportare le fatiche più ingenti.
 
L’impresa fu caldeggiata anche da monsignor Flaget vescovo di Bardstown, una diocesi che comprendeva il Kentucky, il Michigan, l’Indiana, l’Illinois, l’Ohio, il Missouri, il Tennessee, il Wiscontsin, l’Iowa e una metà dell’Arkansas. Guardando la carta geografica ci si accorge che si tratta di più d’un quarto del territorio americano. Un vescovo di una giovane diocesi - eretta nel 1808 da Pio VII - a caccia di preti e di istituzioni ecclesiali per poter impiantare il cattolicesimo in una terra dove il cristianesimo coincideva quasi totalmente con le varie derive settarie del protestantesimo europeo. Fu lui a fare in modo che i trappisti acquistassero ad un prezzo conveniente una vecchia fattoria con più vecchi edifici, millequattrocento acri di terreno boschivo e non molto terreno coltivabile. La fattoria era appartenuta ad una congregazione di suore, le sorelle di Loreto, che vi avevano aperto un orfanotrofio, giudicando poi il luogo troppo isolato. Il nome che avevano dato alla fattoria, quasi un presagio dello spirito “allegro” dei futuri proprietari, era stato Gethsemani.
 
Il 26 ottobre 1848, verso le tre del mattino, dopo aver cantato l’ufficio notturno l’abate di Melleray dom Massimo diede la benedizione ai «diletti fratelli partenti» che erano quarantaquattro, agli ordini del piccolo padre Eutropio. Erano stati scelti con grande avvedutezza, anche in base alla corporatura robusta, e in prevalenza venivano dalla Bretagna e dalla Vandea, dotati delle caratteristiche «di quegli ostinati e intrepidi contadini e marinai». Al canto delle litanie si snodò, nel buio della notte e sotto una pioggia torrenziale, la processione di tutti i monaci che accompagnò i fratelli partenti ad un crocicchio al limite del bosco. «Così s’iniziò l’esistenza del monastero di Nostra Signora di Gethsemani. Quella mattina aveva visto ciò che, dal punto di vista tecnico, era la fondazione di una nuova casa. La comunità era stata formata e aveva cominciato a esistere e a funzionare come unità autonoma dal momento del suo distacco da Malleray. Ma doveva ancora percorrere molte migliaia di miglia prima di trovare il luogo che le era stato destinato. Per due mesi sarebbe andata in cerca del suo monastero»[15].
 
A rendere “movimentato” tutto il viaggio, più di quanto non potesse esserlo già normalmente, ci pensò il nemico di cui sopra. Il fatto più increscioso fu la morte di padre Benezet, un anziano monaco piemontese che si era offerto volontario per la fondazione. Fu sepolto in mare. Giunti a New Orleans i trappisti trasbordarono la gran mole dei loro bagagli, costituiti in gran parte da attrezzi di lavoro e dai grandi e pesanti libri liturgici, su un battello fluviale che in dieci giorni li avrebbe condotti a Louisville, la città più vicina alla fattoria del Gethsemani che distava cinquanta miglia da essa. «Il viaggio terminò come era cominciato: fra scrosci di pioggia. Stretti l’uno contro l’altro in tre carri, i monaci impararono quanto il Kentuky poteva essere cupo, triste e freddo in dicembre». A Bardstown, dov’era la sede vescovile, arrivarono a notte inoltrata, fradici fino alle ossa, affamati, esausti, in parte a piedi per la rottura di un carro,col fango alle ginocchia. Trovarono immediato ricovero e soccorso nel collegio dei gesuiti e per i tre giorni successivi soggiornarono presso la casa del vescovo ritemprandosi per l’enorme fatica che non aveva conosciuto soste. Poi, come Dio volle, giunsero al luogo del loro riposo. Se il viaggio, e per molti di loro era l’ultimo, era terminato, «si accorsero dalla povertà della terra circostante che le loro fatiche erano appena all’inizio […] La vista della foresta li rallegrò, dopo tanto panorama relativamente nudo. La soddisfazione si tramutò in gioia quando il negro che guidava uno dei carri disse che il bosco era di loro proprietà. Era Gethsemani, la loro nuova patria»[16]. Lì, in una delle vecchie capanne che costituivano il nuovo monastero, celebrarono il loro primo Natale, ricordando sicuramente che l’avventura cistercense era iniziata in un gruppo di capanne tra i canneti di Citeaux e che il Salvatore del mondo era nato in una “reggia” molto simile alla loro.
 
Nell’arco di un ventennio, grazie all’impegno testardo di dom Eutropio che intanto avevano eletto abate, i monaci riuscirono a costruire chiesa e monastero nella misura e con i mezzi della loro povertà: «Una costruzione massiccia, quadrata, senza speciali pretese di grazia architettonica, con muri spessi e solidi intorno ad un chiostro centrale» che rispecchiava la personalità spirituale dei suoi abitanti; e l’inflessibilità del successore di dom Eutropio che per motivi di salute dovette dimettersi, tornare in Francia e assumere poi l’incarico abbaziale alle Tre Fontane nei dintorni di Roma. Al governo appassionato e ricco di fede di questo abate pioniere seguirono ventinove anni del rigido governo abbaziale di dom Benedetto Berger dal «mento napoleonico e dagli occhi d’acciaio». I monaci scelsero come abate quest’uomo dalla disciplina stretta che fece si che «il Gethsemani del diciannovesimo secolo venne a rappresentare quello che La Trappe era stata all’epoca di Rancè. Era un luogo di cui la gente in generale e persino i cattolici avevano paura. […] Coloro che entravano nel monastero trovavano tutto ciò che era essenziale alla vita contemplativa quale era stata condotta da san Bernardo e dai mistici cistercensi del dodicesimo secolo. Tutto all’infuori della speciale atmosfera spirituale e della dottrina vitale che animavano la Clairvaux di san Bernardo. […] Non sapevano penetrare al di sotto della superficie di durezze e umiliazioni esteriori per trovare quella gioia interiore che accompagna la croce dell’ascetismo»[17].
 
In questo clima di fredda osservanza regolare tutti i tentativi dei postulanti americani fallirono, tanto che ci si chiedeva se gli americani fossero negati per la vita contemplativa. Per il disgelo si dovette attendere la maturazione dell’unico frutto americano sopravvissuto all’inverno dittatoriale di dom Benedetto. Un giovane georgiano di Atlanta che diventerà monaco e poi abate: dom Federico Dunne, in pratica colui che accoglierà paternamente il giovane Tom Merton a Gethsemani.

 
 Il trappista
 
Senza il breve quadro storico tracciato sulle origini della Trappa e dell’abbazia americana di Gethsemani è difficile per un contemporaneo capire cosa significasse nel 1941 diventare trappista. Entrare tra i trappisti significava morire completamente al mondo e seppellirsi nel monastero dal quale non si usciva più neanche da morti. La clausura era rigorosissima e il cimitero all’interno di essa. Poco più di due secoli e mezzo dalla riforma di Rancè usi e costumi, spiritualità e liturgia erano rimasti pressoché  immutati. Entrando in monastero Thomas Merton era morto. Di lui non esisteva più neanche il nome. Gli fu dato quello di fra Maria Louis. Non conosceva nulla in profondità della Trappa, se non l’attrazione emotiva che gli provocava la fascinazione di neoconvertito. Pian piano avrebbe ponderato anche intellettualmente il significato e il valore di quella rigida impostazione monastica, insieme alla relativa simbolica consuetudine di espropriazione delle espressioni anche più elementari dell’umano. Come scriverà molti anni dopo, sapeva in qualche modo che il monaco appartiene «ad una strana categoria di persone, di gente ai margini, perché nel mondo moderno il monaco non ha più un posto ben preciso nella società […] noi siamo deliberatamente irrilevanti […] La persona marginale, il monaco, il profugo, il prigioniero, tutta questa gente vive in presenza della morte la quale mette in discussione il significato della vita. Questa gente combatte la morte dentro sé, cercando qualcosa più profondo della morte […] e il compito del monaco o della persona marginale, della persona meditativa e del poeta è quello di andare al di là della morte anche in questa vita»[18]. Era una sana e ideale teoria che per tanti motivi faticava ad incarnarsi nel monastero. Era proprio il contrario di ciò che aveva teorizzato Rancé!
 
La consapevolezza della marginalità intesa come lotta contro la morte dentro di sé appartiene al Merton maturo. Non è né quella iniziale né quella dei superiori e dei monaci trappisti negli anni dell’ingresso di Merton, ancora troppo influenzati dall’impronta data da Rancè al monachesimo cistercense che aveva fatto si che La Trappe avesse in comune con san Benedetto e la Citeaux del dodicesimo secolo molto meno di quanto il riformatore pensasse[19]. I monaci fondatori di Citeaux avevano voluto semplicemente ritornare alla regola di san Benedetto in tutta la sua semplicità, basando la loro vita sul Vangelo e sull’esempio della povertà di Cristo; mangiando il pane col sudore della propria fronte, in comunione con tutti gli uomini comuni. Con tale stile di vita essi pronunciavano una implicita condanna contro le ricche comunità monastiche cluniacensi che conducevano il loro “ozio liturgico” derivandolo dallo sfruttamento dei servi della gleba, dei fratelli conversi e dalla tassazione dei poveri. San Bernardo tuonò sonoramente per denunciare tale situazione richiamando il monachesimo occidentale all’obbligo di una coerente testimonianza evangelica di povertà e sobrietà. Il quadro prospettico della riforma cistercense era molto chiaro a fra Louis; lo aveva studiato a fondo e messo per iscritto, come memento per il suo stesso Ordine ne Le acque di Siloe, sperando se ne traesse una proficua lezione ai fini di una revisione delle consuetudini di vita che riducevano la contemplazione ad una semplice etichetta che non corrispondeva per nulla al contenuto.
 
Fra Louis più avanti prenderà per buona la lezione del Mabillon e per lui saranno proprio lo studio e la cultura a rianimare il corpo agonizzante di un monachesimo destinato altrimenti all’estinzione perché occupato ad attuare riforme troppo esclusivamente concentrate su un «ritorno alla lettera» e perso in un groviglio di interpretazioni. Un monachesimo che mentre si propone di immettere una ventata di aria fresca, in realtà non fa che aumentare il pericolo di soffocamento perché chiude tutte le finestre che guardano sul mondo o verso il cielo. Si accorgerà, studiando e meditando che «non c'è nulla dello spirito di ghetto in san Benedetto. Ciò che è meraviglioso nella sua Regola e in lui stesso è quella freschezza e libertà di spirito, quella sanità mentale e larghezza di vedute, quella salute di cui traboccava la vita dei primi benedettini»[20].
 
Si era parecchio distanti dallo spirito del fondatore del monachesimo occidentale, dal carisma originario: «San Benedetto non ha mai affermato che il monaco non debba mai uscire di convento, mai ricevere una lettera, mai accogliere un visitatore, mai parlare ad alcuno, mai sentire una notizia da fuori. Egli voleva che il monaco sapesse distinguere ciò che è inutile o addirittura dannoso da ciò che è utile e salutare, e in tutte le cose glorificare Dio. Rinnegare il mondo? Il monaco deve vedere Cristo nel pellegrino e nello straniero che vengono dal mondo, specialmente se poveri. Questo è lo spirito e la lettera della Regola»[21].
 
E’ vero che l’'aria del mondo esterno non è aria pura. «Aprire la porta e uscire per le strade non è una soluzione» dice Merton. Ma l'aria pura di cui il monachesimo ha bisogno «è il respiro nitido dello Spirito Santo, che viene come il vento e soffia dove gli piace. La finestra deve quindi aprirsi o potersi aprire in tutte le direzioni. È un errore sprangare porte e finestre per trattenere in convento lo Spirito Santo. L'atto stesso di sprangare porte e finestre a questo fine può essere fatale»[22]. Si potrebbe dire che è peccato contro lo Spirito santo stesso!
 
L’ingresso del giovane ventiseienne Tom in monastero intese essere in prima battuta una forma radicale di protesta contro il tenore di vita della cultura americana che lo aveva allattato per tanti anni e dalla quale prese le distanze perché ne riconobbe la velenosità. Fu una forma plateale di ribellione nei confronti di una società che disprezzava i valori spirituali. Il monachesimo come forma di ribellione istituzionalizzata, posto volontariamente ai margini della società alla quale ricorda l’esistenza di un ponte verso il trascendente. Una sorta di custode dell’umanità, un archetipo che rammenta una dimensione costitutiva della vita umana. Per dirla con Raimond Panikkar, «questo archetipo è una qualità unica di ciascuna persona, che richiede, e al medesimo tempo rifiuta, l’istituzionalizzazione. […] I grandi monaci hanno sempre provato disgusto quando il monaco diviene una figura ben accetta  nel mondo e riceve la benedizione della società»[23].
 
Ancora oggi ci si può chiedere che cosa indusse un giovane uomo così intelligente, brillante, intuitivo, estremamente socievole a scegliere una via così radicale di distacco dal mondo, una posizione che lo collocava in uno stato di marginalità istituzionalizzata. E’ una domanda che ci poniamo ogni qualvolta che ci imbattiamo in personalità di alto livello spirituale, di alta levatura umana che fanno la scelta cristiana e la fanno contro corrente rispetto ai parametri stabiliti dal mondo o anche da una certa tradizione della Chiesa, scegliendo forme di vita che non sono certo abituali, e a volta proprio originalissime fino a sembrare strambe. Il monaco Louis, per esempio, ebbe molta venerazione per san Benedetto Giuseppe Labre che si santificò scegliendo la vita del mendicante, nella povertà più estrema, nell’abiezione solitaria più totale e nel vagabondaggio che per lui consisteva nel peregrinare di chiesa in chiesa per assistere alla messa. Perché Tom per temperamento era affascinato da tutto ciò che è estremo e cercò, dopo la conversione, l’estremismo nel bene, anche se tale posizione ogni tanto gli dava le vertigini. Il 30 maggio 1948, preso dal panico per la responsabilità da assumere nell’imminente ordinazione presbiterale, scrive sul suo diario: «A volte mi viene voglia di fuggire, di farmi vagabondo e vagare per le strade privo di tutto, come l’umile George o san Benedetto Giuseppe Labre»[24].
 
Tom era perfettamente conscio di ciò che lasciava fuori dalla porta della Trappa: anzitutto l’idea che aveva di se stesso, l’idea che si era fatta e sviluppata nel quadro della società civile per il conseguimento di quelli che gli sembravano i suoi obiettivi. Certamente, dice, «il mondo non significava per me né i ricchi (io ero povero) né una vita di lusso, certamente non l’ambizione di diventare qualcuno negli affari o in qualcos’altro che non fossero le lettere. Ma significava tutta una serie di servitù che non potevo accettare: servitù a certi valori standard che per me erano idioti e ripugnanti e lo sono tuttora»[25].
 
E’ chiaro che tale atteggiamento dipese dall’aver preso molto sul serio il cristianesimo dopo il battesimo ricevuto nella Chiesa cattolica e per il quale aveva cercato “padrini” molto esigenti e coerenti: le persone fisiche di non comune spessore umano che il Signore aveva posto sul suo cammino e che gli furono amiche e consigliere anche per il resto della vita; e le personalità  non certo convenzionali dei tanti autori, poeti, letterati, filosofi le cui opere aveva studiato con grande interesse. Opere che lo avevano aiutato a pensare o/e a ripensare in ordine alla verità e che costituirono le pietre di fondazione del suo edificio spirituale. Un edificio che non disprezzava la cultura ed anzi la considerava importante al fine di ottenere una maggior cognizione dell’umano, per poterlo, dunque, meglio servire, aiutare, illuminare con la fede e l’esempio della possibilità di una vita diversa. Per poter condividere con l’umanità la ricerca e la visione della verità da raggiungere con i mezzi spirituali, oltre quelli dell’intelletto. Spirito e intelletto che per lui non erano antagonisti, ma coesistevano nell’uomo e dovevano cooperare nell’aiutarlo a rintracciare la via della verità.
 
Da trappista Merton si accorse che sia l’una che l’altra dimensione andavano rivalutate e riformate. Una spiritualità arroccata sull’osservanza di esercizi ascetici e un’anti-intellettualismo che aveva costituito la nota dominante dell’osservanza monastica non andavano bene. Dagli inizi del secolo, specie sotto l’abbaziato di dom Edmondo Obrecht, a Gethsemani era stata tolta tanta polvere mentale che per due generazioni si era accumulata sulla comunità. Quell’abate aveva creato la più bella biblioteca monastica americana, ricca di più di quarantamila volumi. Si trattava ora di servirsene intelligentemente, per spingere i monaci oltre i limiti di una spiritualità impegnata solo a comprimere, a costringere la natura umana anche nella mortificazione dell’intelletto. Non era un lavoro facile.
 
Ai suoi tempi, non dissimili sotto molti aspetti dai nostri, il giovane professore di letteratura inglese constatava «un vuoto immenso, disumano, pieno di parole, formule, slogan, dichiarazioni, echi, ideologie! […] pensiamo che queste formule con le quali provvisoriamente si riempie il vuoto della nostra mente, possano, per il momento, prendere il posto di idee … mentre chi decide per noi sono i calcolatori elettronici»[26]. Perciò la vita stessa, per lui, non doveva essere nient’altro che «una lotta per trovare la verità»: non però quella che già si possiede o si crede di possedere e sembra sufficiente a condurre l’esistenza, a prendere la vita «spensieratamente, passivamente, così come viene», rinunciando «alla lotta, alla purificazione, che sono invece necessarie. Non basta aprire gli occhi e vedere. Per comprendere occorre non soltanto dialettica ma un lungo lavoro di accettazione, obbedienza, libertà e amore»[27].
 
Un lavoro decisamente ascetico che esigeva anzitutto una disciplina su di sé. E aveva cominciato a praticarlo dopo il battesimo, quando con serietà e rigore si era imposto, ogni giorno, la pratica della meditazione seguendo gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Lojola. Anche i gesuiti lo avevano attratto, se non altro per la loro disposizione vocazionale ad operare nel campo della cultura e della teologia, dell’insegnamento e della pastorale negli ambiti delle povertà più estreme. Il suo lavoro ad Harlem aveva seguito quella impostazione pastorale di servizio diretto, umile, pratico nei confronti dei poveri. Però si persuase della necessità, almeno per sé, della radicalità del segno da diventare: dell’essere cioè cristiano «non di questo mondo», e dunque marginale come il Verbo incarnato che scelse per la vita terrena non la visibilità e il potere della gloria umana ma il nascondimento e la povertà della gloria divina secondo la visione di Ireneo: l’uomo vivente che è la vera gloria di Dio.
 
Per questo optò per la regola dura della Trappa dove l’ascesi rigorosa era funzionale all’assorbimento della Grazia che si effondeva come acqua salutare durante le lunghe veglie di preghiera notturna, nella regolarità della scansione delle Ore liturgiche, nella pratica costante della Lectio; tutte queste pratiche per lui erano mezzi, anche se c’era il pericolo che potessero diventare fini. E cercherà di spiegarne la differenza ai suoi confratelli, in primis; e ai cristiani di buona volontà non secondariamente. La lezione di Aldous Huxley gli era servita ma era stato uno dei pochi ad impararla e sperimenterà come fosse difficile impartirla. Potrà solo darne testimonianza avendo come pungolo della sua scrittura il momento di crisi della sua epoca che si rifletteva anche in «un momento raro e insolito della storia di un particolare monastero»; una situazione di «bruciante dualismo» destinata ad essere «un simbolo e un presagio dell’America d’oggi» scrive nella prefazione a Il segno di Giona. Una situazione scomoda, tra il già e il non ancora, tra speranze e frustrazioni che lui registrava stando nei panni di «un individuo preso tra gli spasmi di tale stato»[28].

 
 Contemptus mundi e Coca cola
 
La fede cristiana per Tom significò una visione luminosa sull’esistenza. La scoperta della libertà di Cristo che rende l’uomo «libero dal determinismo psichico e dalle ossessioni e miti di una società temporale, menzognera, avida di danaro, libidinosa e assassina, la società governata dall’amore del danaro e dall’uso ingiusto e arbitrario del potere»[29]. Ecco perché si decise ad impegnarsi per tutta la vita ad essere segno «di protesta e non acquiescenza» alle logiche del mondo; un mondo felice perché «beve Coca Cola o Seagrams» e produce «uomini-massa» con un modello  basilare «che è identico in Russia, negli Stai Uniti, in Germania, in Francia», in tutto il mondo globalizzato potremmo aggiungere noi oggi. Perché «il materiale e le apparenze cambiano, e forse nell’Europa occidentale il taglio è un po’ più sofisticato. Ma è sempre lo stesso abito, lo stesso paio di pantaloni già confezionati, lo stesso cretinismo spirituale che non permette di distinguere i cristiani dagli atei»[30].
 
Una visione chiara della situazione, una scelta coraggiosa, una determinazione tratta dall’esuberanza giovanile, una visione un po’ romantica della vita monastica che lui ancora doveva assaggiare, gustare, digerire per valutarne appieno la portata nutritiva per la sua complessa personalità: vivace intellettualmente, esigente spiritualmente, aperta alla vita e al mondo pur nella scelta della rinuncia ad esso. Al mondo così come s’era ridotto, ma nella speranza di un “mondo nuovo”. Gli ostacoli si sarebbero presentati ad ogni piè sospinto e li avrebbe scorti in sé, nella comunità, nei superiori, nella Chiesa, che non erano fuori dal mondo, in un empireo di superumanità, in una specola stoica; anche se probabilmente, in molti casi, credevano di esserlo.
 
Uno degli studiosi più attenti della questione mertoniana, William Shannon, sostiene che preso dal fervore Tom, da principio, divenne il monaco ideale: pio, devoto, ubbidiente, un po’ “affettato”, con le mani dentro le ampie maniche della cocolla. Convinto, per l’autorità intellettuale di Huxley, che una vita per essere autenticamente umana deve essere disciplinata, si assoggettò ciecamente alla Regola dell’Ordine e a tutte le bizzarre e anacronistiche consuetudini di Gethsemani, retaggio di Rancè, dello zelo masochistico di Lestrange e dell’impassibile glacialità di Berger. Quella Regola e quelle consuetudini contenevano principi di sufficiente autarchia che implicitamente ne reggevano uno assoluto: Non si deve pensare a sé stessi e da se stessi; «La Regola dell’Ordine penserà per te!». Bene, conclude Shannon, Merton «era troppo intelligente per vivere a lungo in tale situazione»[31].
 
In effetti non era un fatto scontato negli ambienti monastici del suo tempo la distinzione tra solitudine contemplativa e contemptus mundi! Una distinzione che fra Maria Louis sarà impegnato ad affinare per tutto l’arco della sua vita monastica. Studiando i testi patristici e monastici apprende che il valore originario dell’idea di contemptus mundi col tempo era stato dimenticato dai monaci se non dalla cultura cristiana stessa. Dal significato originario di sano distacco cristiano, di liberazione da preoccupazioni senza cui non avrebbe senso parlare di amore, di pace, di giustizia, si è poi passati alla prassi formale di organizzazioni religiose che subdolamente quanto realmente conservavano atteggiamenti mondani. Il contemptus mundi è diventato sempre più, dice Merton, «un ascetismo di obbedienza al servizio del “potere spirituale” o del partito politico della Chiesa. Si considerava giusto che uno disprezzasse il mondo e al tempo stesso perseguisse gli stessi scopi del mondo, sia pure per motivi diversi»[32].
 
Lo stato monastico non è isolamento dal mondo per sottrarsi con disgusto al suo “fetore” rinchiudendosi in un ambiente di asettica quanto presunta purezza. E’ invece dono e testimonianza all’umanità di una trascendenza immanente nel suo cuore. L’ascesi monastica non si nutre di un silenzio fine a se stesso, mortificazione della vocazione colloquiale dell’uomo, silenzio sterile che si fa mutismo, ma di un silenzio che si fa spazio di fecondità per l’accoglienza di una Parola capace di dare significato ad ogni altra. La scelta monastica si inscrive pertanto nell’ambito positivo, che è essenzialmente evangelico, del contemptus mundi, «essere nel mondo ma non del mondo», rifiutando qualsiasi altra interpretazione di esso che tenda a considerarlo secondo lo spirito del mondo stesso o secondo un angelismo fuori dal mondo.
 
La conclusione del monaco Louis, facendo riferimento alla storia della tradizione, è mordace: col passare del tempo «il disprezzo per il mondo diventò non più disprezzo per gli obiettivi del mondo ma competizione con il mondo sulle sue stesse basi e per la conquista dello stesso potere, disprezzando i suoi motivi […] l’opposizione tra potere spirituale e potere temporale si è ridotta di fatto a nulla di più della fraterna rivalità che esiste, immagino, tra la Ford e la General Motors»[33]. Voleva ricordare che la Chiesa e il mondo monastico avevano attraversato l’intero lungo medioevo impelagati in una simile situazione, senza riuscire, in definitiva, a trovare il vero bandolo della matassa, o, peggio ancora, ostinandosi a non volerlo scorgere tra le linee semplici del Vangelo. Né si può dire, per altri versi, che la Chiesa si sia districata completamente da questa situazione in epoche successive, fino al presente.
 
Non che la situazione a Gethsemani fosse proprio così oscuramente medievaleggiante all’ingresso di Tom. Anche dom Frederic Dunne, il primo abate americano, si era affaticato a togliere polvere e ragnatele mentali, mostrando anche alla comunità la fisionomia umana e paterna dell’abate. Ma si sa che certe concezioni e certe abitudini diventano pacifiche e tacite tradizioni de facto; sopravvivono in stato di palese latenza in ambienti dove è difficile, se non impossibile, il sano confronto dialettico delle idee, il discernimento sapienziale, una corretta ermeneutica storica, un sereno dialogo spirituale. Quando invece al posto del pensiero c’è un vuoto disumano, acritico, pieno di luoghi comuni e di tacitanti e pacificanti appelli ad una tradizione imbalsamata, allora la situazione diventa stagnante. Nella società, nella Chiesa, nel monastero.
 
Nei primi anni di vita monastica, dopo l’incanto iniziale, il confronto di quell’ambiente, sotto l’aspetto anzitutto culturale, con il bagaglio di conoscenze non leggero del professore e scrittore, risultò non poco stridente. Il giovane ed esordiente novizio agli inizi colse prevalentemente gli aspetti positivi dell’ambiente monastico, quelli legati soprattutto alla liturgia, allo studio dei Padri e della storia dell’Ordine. Col passare del tempo però cominciò ad avvertire quel senso di vuoto e riprese a pensare, a dare vita dialettica ai suoi pensieri, estendendo la volontà di non acquiescenza ai principi del mondo anche a quelle concezioni della vita monastica che gli sembravano una grottesca scimmiottatura degli stessi principi mondani: «Se non pensiamo non possiamo agire liberamente. Se non agiamo liberamente siamo in balia di forze che non capiremo mai, forze arbitrarie, distruttive, cieche, fatali a noi e al nostro mondo»[34]. A partire da questa ultima affermazione si può ben dire per Merton che il pensare è già contemplazione, ricerca del punto giusto di osservazione del vero, teoria spirituale illuminata dallo Spirito tesa alla visione di Dio.
 
La sua natura ribelle si sottomise a Dio, e proprio per questo si rifiutò di accettare supinamente e ad occhi chiusi le prospettive degli uomini. Accettò le consuetudini monastiche come segni di protesta al vivere borghese, ma le criticò negli aspetti che riducevano arbitrariamente la dimensione umana ed evangelica della vita in comune a scapito della persona. Accettò molte cose per ubbidienza, salvo poi interrogarsi sull’utilità spirituale di certe consuetudini e sul valore da attribuirgli. I suoi diari sono testimonianza preziosa dell’esercizio del suo pensare, della sua libertà intellettuale ed interiore, del suo mettere in discussione se stesso e la realtà che lo circondava, non dando mai nulla per scontato. Giunto quasi alla fine della sua parabola monastica scriverà, alla fine di maggio del 1965:
 
«La vita monastica è nel suo complesso un ambiente ardente: ardente di parole come devi, è necessario che, va fatto. Le comunità si dedicano a progetti ad alta definizione: “chiarire il tutto!” Più il progetto è chiaro e più va chiarito: si ramifica, e allora bisogna ripulirlo dai rami. Più rami si potano più ne crescono: ne taglio uno e ne crescono tre. All’estremità di ogni ramo vi è un grande punto interrogativo. La gente è indaffarata con grandi volumi di significato e ognuno è ansioso di sapere se tutti gli altri hanno ricevuto il messaggio più recente. Qualcuno ha ricevuto un messaggio che io non ho ancora? Me lo passate per favore? Mi informerete quando me lo passerete? Devo arrabbiarmi? Devo schiarirmi la voce, alzarmi e dire: “per come vedo la faccenda, san Benedetto direbbe…”? San Benedetto capì che la cosa migliore da fare per la vita monastica è di raffreddarla, e invece oggi la si scalda da tutti i lati»[35].
 
Acume caustico, sguardo critico uniti al solito humor sottile fanno capire come fra Louis non credesse più alle farse istituzionali che si vestono di seriosità per dare vita al nulla: i famosi splendidi quanto inesistenti abiti del “re nudo” della favola di Andersen! La vita spirituale, la formazione cristiana, la carità evangelica non possono essere affidate in toto a pianificazioni organizzative che confidano unicamente nella sagacia umana e vengono orchestrate con banale retorica di stampo politico. Il contemptus mundi contempla le giuste distanze da simili metodi che sono pian piano entrati anche nella mentalità ecclesiastica che dopo cinquant’anni da quello che Merton ne scrive ha fatto raggiungere all’ambiente in cui si dibatte affannosamente temperature da altoforno.
 
Fra Louis avrebbe dovuto compiere il viaggio a Ninive ma Il segno di Giona non ne era la cronaca completa, era solo il suo inizio. Il segno di Giona  è la cronaca degli anni di formazione e costituisce uno spaccato della vita monastica a Gethsemani scandita dai ritmi delle sette ore liturgiche quotidiane, feste, domeniche, messe, professioni solenni, ordinazioni, eventi anche prosaici del monastero con la sua fauna umana: i monaci di coro, l’elite della comunità; l’abate col suo potere assoluto sotto il manto ieratico, i fratelli conversi che erano la forza lavoro trainante e tra i quali erano molti uomini santi che avevano trovato Dio tra la preghiera personale, il dissodamento dei campi, l’intreccio di canestri di giunco, la produzione del formaggio e tutti i lavori più umili. Prima del suo ingresso, guardando Gethsemani con l’occhio bramoso e idealista del postulante Tom aveva affermato che «finchè esisteranno il monachesimo e l’agricoltura – e dovranno pur sempre esistere – questa loro combinazione sarà feconda e produrrà società perfette. In questa abbazia non c’è proprio nulla di superato»[36].
 
E non si sbagliava circa la valenza di indici di umanità di queste due costanti antropologiche la cui forte deculturazione ci ha condotto, al presente, a livelli di cinico utilitarismo planetario senza eguali. In maniera un po’ enfatica aveva rappresentato l’abbazia come «paradiso terrestre», sia materialmente che spiritualmente, ma soltanto perché, dice, paradossalmente è anche un purgatorio: «un luogo in cui ci strappiamo di dosso i nostri peccati come cerotti, sebbene non altrettanto rapidamente. Non facciamo questo per amore di sofferenza, ma per riuscire a liberarci dai cerotti: ed è cosa che fa soffrire»[37].
 
Al suo sguardo di poeta non era sfuggita neanche un’icona che sintetizzava l’essenza di quel paradisus claustralis al quale era indirizzato e che dipingeva con molta veridicità lo spirito più primitivo dell’Ordine, la sua matrice squisitamente benedettina, la sua fragranza evangelica, la capacità di immediata traduzione liturgica: Il giovedì santo del 1941, dopo una passeggiata nel giardino della foresteria, rientrando in convento vede i monaci che «lavano i piedi a un gruppo di mendicanti, offrono loro denaro, ne baciano le mani e i piedi, servono loro la cena. In un primo momento avevo provato un po’ di timore a quella vista, pensando che potesse rivelarsi falsa. Invece, vidi Cristo che lavava i piedi a Pietro. I monaci avevano ascoltato Cristo e si dedicavano a quelle opere che Egli aveva loro indicato di compiere – non una serie di gesti senza significato, ma una azione liturgica vivente. Non sapevo che la carità potesse esprimersi con tanta semplicità, con tanta innocenza, senza esteriorità o artifici. Cristo mi parlò in quell’atto, e fece sì che lo conoscessi meglio e che maggiormente lo amassi: ed è quello che io cerco in questo luogo»[38].
 
Aveva colto in quell’azione liturgica informale, non irrigidita da formule eucologiche e ritualismi stereotipati, la porta di ingresso alla percezione del mistero di Cristo. Ciò lo condurrà, da monaco, a considerazioni sulla liturgia che ancora oggi, dopo la controversa questione della riforma liturgica, meriterebbero di essere studiate con molta attenzione.
 
Ma questi aspetti non esaurivano la fisionomia di Gethsemani che gli si rivelerà, col passare degli anni, uno spazio un po’ ristretto, e non solo da un punto di vista geografico-logistico; una cittadella dove, ironizzerà Merton «duecentosettanta amanti del silenzio e della solitudine sono stipati in un edificio costruito originariamente per settanta persone»[39], e dove la privacy era praticamente inesistente. Ci si spalleggiava in uno spazio fisico e spirituale che aveva poco a che fare con usi e costumi che, se pur nati nello spirito autentico del contemptus mundi, almeno nell’intenzione, risultavano tuttavia inadeguati a favorire una crescita umana e un dialogo autentici, una vita contemplativa nel vero senso della parola, una vita monastica consistente nell’osmosi tra solitudine e comunione, tra distacco e prossimità.
 
Era opinione monastica comune che il problema fosse risolvibile chiudendo con tutte le mandate i catenacci della clausura. E il monastero sovraffollato, umanamente parlando, recava le stesse problematiche dell’affollamento delle carceri. Una immagine di chiusura che Merton userà è quella della serra: «Molti immaginano i monaci come piante di serra coltivate in una vita di preghiera gelosamente protetta e surriscaldata spiritualmente. Bisogna invece ricordare che la vita contemplativa è prima di tutto vita, e che la vita implica apertura, crescita, sviluppo. Rinchiudere il monaco contemplativo in una cerchia di orizzonti ristretti e di interessi esoterici significa condannarlo a una sterilità spirituale e intellettuale»[40].  Non era tanto la ristrettezza di spazio fisico il vero problema; questo, semmai, simboleggiava alla perfezione la clausura intellettuale e la ristrettezza di orizzonti spirituali. Il fatto che «la vita spirituale è vita», e non una sua parte pur nobile, sembra quasi la scoperta di un principio sovversivo all’interno di una organizzazione tendente a considerare normale l’anomalia della dicotomia: anima e corpo, sacro e profano, spirito e materia, monastero e mondo… Anche qui Merton richiama un principio antropologico assolutamente normale, considerando la vita contemplativa stessa come il naturale crescere dell’uomo, nell’osmosi armonica di tutte le sue dimensioni.
 
Il clima di Gethsemani in verità era molto austero ancora a quel tempo e la sua struttura logistica estremamente primitiva e inefficiente. L’abate dom Frederic Dunne era molto umano e saggio e incoraggiò fra Louis nel lavoro di scrittore. Ma come amministratore era stato un disastro. Il lavoro dei campi seguiva ancora tecniche medioevali, con attrezzature rudimentali e scarso rendimento. «Monaci trappisti coi loro cappucci medioevali e i pesanti stivali fatti nel convento attraversano, a lenti passi, il vigneto. Sulla torre rintoccano le campane»[41]. Era la forma di ascesi più dura praticata dai monaci ed anche una fonte inesauribile di poesia e di libertà per Tom che osserva, al tramonto del sole: «Una coppia di gazze turchine si accapiglia su un albero»[42]. L’ansia di novità si appaga spesso di forme esteriori e di impressioni estemporanee. La novità vera invece risulta da ricerca mai esausta sul cui cammino la stessa poesia si contrae.
 
Una novità per Tom era la forma di comunicazione, a prima vista originale e non priva di fascino e aspetti comici. A Gethsemani, come in tutti i monasteri trappisti, non si parlava assolutamente! L’esercizio del linguaggio era permesso solo per eventuali colloqui coi superiori o  per confessare i propri peccati al confessore. Non si parlava tra monaci con la voce; solo con un linguaggio di segni fatto grossomodo di quattrocento termini che indicavano cose pratiche ed essenziali: pane, acqua, lavoro, campagna, chiostro, refettorio, messa … la mano con l’indice teso portata al capo indicava l’abate, “capo” della comunità; la stessa mano portata al capo col segno delle corna la mucca. Michael W. Higgins dice che «Merton era un monaco post-moderno all’interno di una tradizione pre-moderna»[43].
 
E ben presto si accorse di aver bisogno di più solitudine. Nove anni dopo il suo ingresso in monastero, l’11 gennaio 1950, in una pagina lirica del suo diario scriverà:
 
«Per la prima volta nella vita ti trovo, o solitudine. Posso contare sulle dita di una mano i pochi brevi momenti di purità, di indifferenza, in cui ti ho trovata. Ora so che sto avvicinandomi al giorno in cui sarò libero dalle parole, sarò loro signore, piuttosto che loro servo: capace di vivere senza di esse, se necessario. Poiché ho ancora bisogno di uscire, per entrare nella terra di nessuno del linguaggio, che non mi congiunge affatto agli altri uomini e che stende un velo sulla mia solitudine. Per parole intendo tutte le espressioni puramente umane che legano gli uomini tra loro. Intendo gli sguardi mezzo disperati e mezzo saggi, con i quali gli uni cercano i pensieri degli altri. Ma non rinuncio a tutto il linguaggio. Poiché c’è la parola di Dio. Questa parola io annuncio, e per annunciarla vivo […] La parola di Dio è silenzio. Il suo Verbo è solitudine. Non lo rinnegherò mai, con la sua grazia! Noi siamo coloro che dal mondo incompleto del linguaggio si addentrano nella solitudine e nell’infinito. Siamo stranieri. Carta, non ho in te una residenza duratura. Tuttavia c’è un ritorno dalla solitudine per manifestare il nome di Dio a coloro che non lo hanno mai conosciuto. Poi rientrare nella solitudine e dimorare nel silenzio»[44].
 
Lo scrittore Merton avvertì la necessità di fare in sé questo spazio accogliente per purificare il materiale della sua scrittura, convinto degli effetti redentivi che la parola ha sull’animo umano quando è assonanza e risonanza della parola di Dio. Sentiva di non odiare il mondo! Semmai il peccato che avvertiva ancora vivace in sé, nel monastero, nella Chiesa e ne scrisse. Non senza qualche problema. Anzitutto di coscienza. Aveva ricercato la solitudine e per contrappasso era stato candidato alla celebrità. Se nei primi anni di idillio monastico Merton usò il suo talento di scrittore per redigere biografie edificanti di mistici e santi cistercensi; poi la sua autobiografia, La montagna dalle sette balze ebbe un successo editoriale enorme ed inaspettato, perché rappresentava qualcosa di completamente nuovo nel panorama della letterature “religiosa”. Era il segno della sua libertà interiore, acquistata non senza fatica a partire da una formazione umana, culturale che la fede impreziosì ma non distrusse perché già preziosa in sé. I suoi superiori apprezzarono molto il notevole riscontro economico di quello scritto e lo incoraggiarono a scrivere; ma i risultati letterari divennero sempre più divergenti dalle loro aspettative, perché intanto la libertà di coscienza del monaco si era estesa a dimensioni al principio impensabili, non misurabili col metro di una stagionata tradizione monastica compiaciuta della sua presunta perfezione. Era necessario che quella scrittura, eco della Parola, giungesse fino al mondo.
 
Ne scriverà a Erich Fromm molti anni più tardi, dopo aver assaggiato i frutti della sua parresia: «Il monaco maturo è una persona estremamente capace e poliedrica, che conduce una vita di libertà e gioia sotto la guida dello Spirito santo piuttosto che della paura servile. In realtà il servilismo è l’esatto opposto dello spirito monastico e cristiano»[45]. Gli dava dunque fastidio il ricorrere agli stereotipi sdolcinati per descrivere la vita monastica, rendendola  una «mascheratura carnevalesca delle cose a cui pretendiamo di aver rinunciato, come se, per esempio, il “lasciare il mondo” fosse adeguatamente rappresentato dalla solita foto del “trappista” con la cocolla e il cappuccio in testa che volta la schiena alla macchina fotografica guardando un lago»[46].
 
Gli anni del noviziato fino alla professione solenne del 19 marzo 1947 passarono in uno stato di alternanza tra la ferma decisione di voler appartenere a Dio, il dramma degli orrori della guerra, l’ispezione minuziosa di ogni angolo della vita monastica trappista e la riflessione sul senso di tutto ciò; unitamente allo slancio di migliorarsi e di migliorare l’ambiente in cui viveva e che vedeva distante dai parametri naturali del monachesimo occidentale plasmato dalla Regola di san Benedetto. Si aggiunse il dolore profondo per la more dell’unico fratello, John Paul, la stesura de La montagna dalle sette balze e la ricerca della solitudine che a volte pensava si potesse localizzare altrove, tra i certosini per esempio o tra i camaldolesi, in una forma di vita eremitica o semieremitica. Il disagio ambientale e il dissidio per la sua attività di scrittore “incoraggiato” li descrive icasticamente così: «Uno scrittore in un monastero trappista è come un’anitra nella stia dei polli, che darebbe qualsiasi cosa per essere un pollo piuttosto che un’anitra»[47].

 
 L’anitra selvatica
 
Non abbiamo testimonianze che attestino che questa immagine Merton l’abbia presa da una fiaba che Lou Andreas Salomè scrisse come una sorta di introduzione per il suo libro sulle figure femminili nella drammaturgia di Henrik Ibsen[48]. Data la sua fame letteraria praticamente onnivora non è difficile che il monaco letterato l’abbia intercettata. In ogni caso la scrittrice russa, amica di Nietzsche, Rèe e Rilke, vi narra ciò che accade quando l’istinto della libertà dell’anitra selvatica si rivolta contro le forze che la tengono prigioniera. La fiaba della Salomè ha sei varianti, ciascuna corrispondente a sei personaggi femminili ibseniani che risolvono in maniera differente il problema della “sindrome dell’anitra selvatica”. Leggendo le sei soluzioni e prendendo a metafora del monastero la soffitta della favola di Lou Salomè, si possono capire i dissidi interiori di Merton che si trova in una situazione paradossale nella quale liberamente si è chiuso, e dalla quale vorrebbe uscire pur restandovi, magari modificando in qualche maniera la struttura della soffitta per una migliore convivenza con i polli, o volare via per rispettare la sua natura impetuosa di anitra selvatica, o assoggettarsi ad un processo di omologazione senza remore pur di «essere un pollo piuttosto che un’anitra». Queste possibili alternative le troviamo, mutatis mutandis, nelle varianti della fiaba che la scrittrice scrisse per descrivere il suo dissidio nel sentirsi defraudata della libertà dopo il matrimonio. E le troveremo mescolate nell’esperienza monastica di Merton che doveva tenere sempre in equilibrio la sua libertà di scrittore e di critico della cultura con gli assiomi dell’obbedienza monastica. Un impegno da funambolo, un esercizio ascetico sui generis!
 
Il primo caso contemplato dalla Salomè vede una piccola anitra implume riparata in una soffitta dove cresce ignara della sua vera natura insieme agli altri animali domestici. Sente di tanto in tanto che fuori da lì c’è il mondo ma è ben contenta della sua vita in soffitta, fino a quando un bel giorno un temporale d’autunno non le dà coscienza della sua vera natura. Allora apre all’improvviso le ali, abbandona la tiepida prigione e si libra nell’ampio cielo.
 
La seconda variante è quella di un’anitra selvatica che si è rassegnata alla sua sorte nel mondo della soffitta. Sa che la vita che conduce è falsa, una pallida parvenza di vita, ma non ha la forza di ribellarsi. Nessuna tempesta d’autunno viene a ricordarle la perduta libertà. Soltanto nei suoi sogni sa che fuori esiste un mondo reale. Mentre muore lentamente in prigionia, sogna la vita vera che non ha potuto trovare.
 
La terza alternativa è la sorte di un’anitra selvatica che ha trovato rifugio nella soffitta perché fuori è stata ferita. Qui ha fatto amicizia con gli altri animali, soprattutto con un giovane uccello cieco. In cattività l’anitra ingrassa e si impigrisce e a poco a poco cessa di aspirare alla libertà. Nulla le ricorda più la vita di prima, all’infuori del canto dell’uccellino cieco. Alla fine è lui soltanto che crede ancora all’aspirazione dell’anitra alla libertà e per aiutare l’amica, dimenticando di essere cieco, fa lui lo sforzo folle di spalancare le ali per fuggire. Resta però impigliato nel ciarpame di cui è piena la soffitta, spezzandosi le ali e cadendo al suolo morto.
 
Nel quarto caso l’anitra selvatica ha invaso il piccolo mondo della soffitta ed essendo più forte e crudele di tutti gli altri animali ha il sopravvento e diventa padrona incontrastata di tutto. Invece di resisterle i mansueti animali rispondono con l’amore alla sua tirannia. Lentamente l’anitra acquista così la coscienza di un animale domestico e prova un tale rimorso e una tale vergogna per i gesti del passato che il solo modo in cui pensa di potersi riscattare è il suicidio.
 
La quinta scena è quella dell’anitra selvatica che si è perduta per caso nella soffitta e non sa abituarsi alla prigionia. Inutilmente gli altri animali cercano di confortarla. Piangendo la sua libertà perduta quasi non si accorge nemmeno degli altri. Alla fine gli animali decidono di aprire una finestra della soffitta perché la povera anitra possa fuggire. Ma, imprevedibilmente l’anitra non fugge. Ora che la libertà è a portata di ala l’anitra resta. In fondo la libertà la possiede, la paura della cattività è svanita.
 
Infine la fiaba della Salomè presenta un’anitra che non è né selvatica né addomesticata. Le manca il coraggio della creatura veramente libera, ma al tempo stesso è insoddisfatta della protezione che le dà il suo rifugio. La sua esistenza senza scopo la conduce a una fine senza significato e senza valore.
 
Nessuno dei casi singolarmente presi si attaglia alla problematica spirituale di un monaco come Merton che ha già trascorso una dozzina d’anni nell’ambiente chiuso di Gethsemani convinto di una sola cosa: della sua totale fedeltà a Dio. Un fatto attestato costantemente nella scrittura di Merton, dal principio alla fine, senza interruzioni. Ciascun caso però può esprimere un aspetto della situazione in cui un monaco può venire a trovarsi: l’abitudine, il dare per scontato, la rassegnazione, la paura o il desiderio per ciò che c’è all’esterno, la mancanza di coraggio, l’inerzia, l’insorgere dell’arroganza del potere anche nel piccolo, la mancanza di consapevolezza di quel “sé” che abbiamo visto essenziale ai fini di una vera crescita spirituale in vista dell’armonia personale e comunitaria. O, peggio che tutto, la disperazione, l’incapacità di riconciliazione, l’asprezza, l’isolamento; tutto ciò può  condurre ad una vita tranquillamente infelice e tutto sommato inumana. «Disgusto completo della stupida mentalità che coltiviamo nei nostri monasteri: culto deliberato della frustrazione e del non senso. Assurdità professionale. La vita non è già abbastanza assurda senza che ci aggiungiamo le nostre frustrazioni e stupidità artificiali? Eppure non appena metto piede nei boschi e mi arrampico nel posto dove si sta costruendo la casa [si riferisce alla costruzione del suo eremo], riesco a dimenticare tutto. Ma non appena torno indietro, ci ripiombo ancora»[49].
 
Così l’anitra selvatica annota nel suo diario al 16 di ottobre 1960. E’ disgustato del suo nuovo abate che apre e chiude le finestre per consentirgli una vita eremitica part time. Ma l’anitra selvatica era determinata a prendersi la libertà del silenzio, della solitudine vera, di uno spazio non coartante la sua natura di libero volatile, come quell’altro da lui trovato nel «bestiario» della Dogmatica di Barth:
 
«Il cristiano nella Chiesa è come un uccello che sbatte le ali contro le sbarre di una gabbia perché nessuno vuole adottare le sue idee, il suo nuovo rituale, i suoi progetti»[50].
 
Ormai era chiara a se stesso la sua natura di anitra selvatica e desiderava che nessuno gliela contestasse. Sarebbe stato molto più comodo e pacifico essere un pollo; se avesse potuto avrebbe volentieri fatto a cambio; ma quella natura che gli consentiva di volare alto non se l’era data da sé ed era la sua croce ed anche la sua gioia; così lo riconosceva e ne rendeva grazie, veniva da Dio. Doveva trovare la sua anima e per farlo doveva entrare nella sua solitudine e imparare a vivere con se stesso. «E’ questo l’inizio del vero umanesimo, perché non possiamo conoscere l’uomo finché non lo troviamo in noi stessi. E quando lo abbiamo trovato scopriamo che è l’immagine di Dio»[51].

 
 Plus ça ch’ange, plus c’est la meme chose
 
La sua crisi aveva una ragione non dipendente completamente da lui ma nella quale lui era ugualmente implicato. Col trascorrere degli anni la sua fama letteraria di monaco scrittore aveva richiamato stuoli di novizi a Gethsemani. Quasi trecento uomini erano accalcati negli edifici dell’abbazia e a volte si aveva l’impressione di «vivere in un sottomarino»[52]; c’erano molte bocche da sfamare e dom James Fox, il nuovo abate, succeduto a dom Frederich Dunne morto improvvisamente, decise di sfruttare tutte le forze umane e materiali dell’abbazia per trasformarla in azienda agricola di prim’ordine: la “Fattoria di Gethzemani”. Merton si trovò in crescente disaccordo col progetto commerciale di don James che laureato in economia ad Harvard non comprendeva le opposizioni del poeta aspirante eremita di cui aveva pur una grande stima, tanto da nominarlo maestro dei novizi e sceglierlo come suo confessore. Merton, come abbiamo notato, non transigeva sul rispetto della fisionomia monastica che per lui non era certo di impronta imprenditoriale. Lui stesso si sentiva un ramo dell’imprenditoria del monastero; i diritti d’autore dei suoi libri non erano cosa da poco e servirono a pagare i debiti della precedente gestione. Sembrava, apparentemente, che ci fosse stata una ventata di cambiamento con l’avvento di dom James, ma in concreto era il vecchio che si riciclava, il mondo che si camuffava da istituzione monastica. La sua riflessione su «il vecchio e il nuovo» scritta sul diario è emblematica della situazione che si viveva a Gethsemani e che probabilmente solo lui notava:
 
«Per “l’uomo vecchio” tutto è vecchio: ha visto tutto, o così crede. Ha perso la speranza in qualcosa di nuovo, quel che lo soddisfa è il “vecchio” cui si aggrappa, temendo di perderlo, ma certamente non ne è felice. Così si mantiene “vecchio” e non può cambiare. Non è aperto ad alcuna novità, la sua vita è stagnante e futile: sì, può esserci molto movimento, un cambiamento che non porta cambiamento. Plus ça ch’ange, plus c’est la meme chose»[53].
 
Una considerazione mordace e gattopardesca, ma profondamente realistica. Non erano certo di  natura economica i cambiamenti che auspicava in monastero. Ottenne come contropartita alla sua contestazione un eremo part time, un ex capanno per gli attrezzi, minuscolo, che adattò e mise sotto il patrocinio di sant’Anna e dentro il quale scrisse buona parte di Nessun uomo è un’isola, di Pane nel deserto e Il segno di Giona, l’opera in cui mise a nudo la sua inquietudine spirituale e la sua vocazione verso una maggiore solitudine; in pratica la trascrizione dei suoi diari dal 1946 al 1952. Un interessante spaccato della vita quotidiana, momento per momento, nel monastero trappista di Gethsemani, considerando non tanto lo «stato» in cui il monastero si trovava – e lo specifica perché la descrizione gli aveva provocato problemi con la censura dell’abate generale[54] – quanto piuttosto «le reazioni di un individuo preso fra gli spasimi di tale “stato”»[55]. Fu proprio a causa di questo libro che cominciarono le scaramucce con dom Gabriel Sortais, succeduto a dom Dominique Noguez nella carica di abate generale. I problemi tra i due erano in verità provocati dai censori della curia generalizia che pur non trovando errori teologici nelle opere di Merton sindacavano arbitrariamente sui temi trattati e perfino sulla forma letteraria, e lo mettevano in cattiva luce con dom Gabriel, il quale era costretto a fidarsi di loro perché non conosceva l’inglese.
 
Fu una crisi che si protrasse a lungo, per un decennio almeno, e che era dettata da una necessità avvertita prepotentemente: «La sola cosa necessaria è una vera vita spirituale interiore, una vera crescita, autonoma, in profondità, in una direzione nuova. Qualunque direzione nuova Dio mi apra davanti. Il mio compito è di spingere oltre, di crescere interiormente, di pregare, di rompere i legami e sfidare le paure, di crescere nella fede, il che richiede una forma di solitudine, di cercare prospettive interiormente nuove e nuove dimensioni nella mia vita. Aprire degli orizzonti nuovi a tutti i costi, desiderarlo e lasciare che lo Spirito santo si occupi del resto. Ma desiderare davvero ciò e operare in quel senso»[56].
 
In pratica si sentiva tradito dalla “politica monastica” che si stava conducendo a Gethzemani e rincarava la dose: «Ci si dice che la nostra vita consiste nella meditazione pacifica e pia della Scrittura e in un quieto ritiro dal mondo. Ma se uno legge i profeti con i propri orecchi e con gli occhi aperti non può evitare di riconoscere il proprio dovere di parlare ad alta voce della volontà di Dio, della verità di Dio e della giustizia dell’uomo verso l’uomo»[57]. Il 10 dicembre 1959 aveva confidato al suo diario: «Una cosa è certa, nel monastero non crediamo nel valore fondamentale dell’ otium sanctum. Crediamo solo in ciò che è difficile e sgradevole. Ecco perché, nella pratica, odiamo la vita contemplativa e la distruggiamo con una attività costante. Hanno accelerato il ritmo produttivo del caseificio e tutti aspettano con impazienza gli ordini […]. Abbiamo finalmente giustificato la nostra esistenza»[58]. Considerava la politica monastica di Gethsemani un riflesso opaco e condizionato di quell’altra che si sviluppava negli Stati Uniti con la quiescenza di una Chiesa impegnata in altre faccende. E descrive senza infingimenti la poca incidenza dei cattolici nella vita del Paese, la vacua consistenza di un cristianesimo sempre più borghese e lontano dalle aspettative evangeliche:
 
«E’ spaventoso accorgersi che la facciata del cristianesimo, che ancora generalmente sopravvive, ha forse poco o nulla dietro di sé, e che ciò che una volta era chiamata “società cristiana” è più semplicemente un paganesimo materialistico con una patina cristiana. E dove la patina cristiana è stata tolta, vediamo messa a nudo la spaventosa vacuità della mentalità di massa, senza morale, senza identità, senza compassione, senza senso e che rapidamente ritorna alla barbarie e alla superstizione. Qui la religione spirituale ha ceduto alla danza della guerra tribale e totalitaria e all’idolatrica venerazione della macchina. Il cristianesimo, in una parola, sta cedendo ovunque all’egemonia del nudo potere»[59]. E ancora: «Certo, un cristianesimo che afferma di obbedire a Dio quando in realtà obbedisce soltanto agli imperativi della società del benessere e di mercato, dovrà alla fine essere eliminato, perché in “malafede” […] gran parte del nostro presunto cristianesimo è in realtà un deplorevole culto diretto a idoli»[60].
 
La fermezza di queste affermazioni gli scaturiva tutta dalla profonda convinzione che il cristiano in un mondo “postcristiano” non se ne può stare immobile e supino davanti alla distruzione del mondo; ha il dovere «di andare contro le terribili costrizioni della società di massa» per restaurare «l’ampio clima umano dell’autentica cultura cristiana […] perché il cristianesimo è stato il padre e il protettore di tutto ciò che è buono nell’umanesimo occidentale, nella cultura e nella libera società. Senza il cristianesimo le virtù, la tolleranza, l’umanità e la filantropia che sono servite a giustificare l’agnosticismo liberale del XIX secolo sarebbero a malapena esistite. Perfino le tracce di umanità nella società marxista possono essere fatte risalire a un’origine giudeo-cristiana»[61]. Da questo compito nessun cristiano, nessun monaco può essere dispensato, in virtù del mistero dell’incarnazione: se Dio è diventato uomo, a nessun cristiano è consentito restare indifferente al destino dell’uomo.
 
Desiderio vero di cambiamento, “novità” suonano quasi come un ritornello in ogni pagina su cui trascrive la sua fiducia illimitata nell’azione dello Spirito santo che ne è il vero ispiratore e artefice. Ipotizza perciò di lasciare Gethsemani per recarsi a Cuernavaca che era una località solitaria in Messico dove aveva ritenuto possibile condurre una vita eremitica molto semplice: «niente macchina da scrivere […] libri strettamente selezionati, circa cento […] rinuncia ad ogni comfort, alla reputazione, alla sicurezza, alle amicizie americane, che mi legano qui e mi rendono parte della falsità collettiva e dell’ingiustizia di questa società. Rinuncia a questo tipo di cenobitismo»[62]. Non aveva una formula definita nella sua mente, né un progetto concreto di vita monastica alternativa. Il 25 luglio del 1958 però aveva abbozzato sul suo diario il progetto per un «piccolo monastero» il cui programma era: «Senza un “programma”», con susseguenti punti orientativi:
 
«Senza un lavoro particolare da compiere. Monaci per vivere, non per essere “monaci”, distinti da ogni altro tipo di essere, bensì uomini, figli di Dio. Senza un futuro speciale: niente campagne per postulanti. Senza alcuna reputazione o fama particolare. Un monastero nascosto, magari non conosciuto come tale. Magari senza nemmeno indossare abiti speciali. Senza edifici visibilmente distinti. Certamente isolato, munito di chiostri e riservatezza. Con dei tipi di eremitaggio, ossia possibilità di solitudine privata per un certo periodo dell’anno. Solitudine particolare in certe stagioni: avvento, quaresima. Costruzione di un nucleo di  monaci maturi, ciascuno capace di decidere per sé nel digiuno ecc. Interessi per l’arte, la musica, la letteratura, la politica ecc. contemporanee. Lavoro manuale naturalmente, chissà un po’ di insegnamento. Ma attenzione a non affollare la vita con lavori e progetti».
 
Dalla conclusione ci si accorge che era in parte un progetto ideale ed in parte un programma di vita che si prefiggeva di condurre a Gethsemani: «Una cosa ragionevole: posso iniziare a vivere ora, per quanto possibile, la vita che vorrei vivere in quel monastero, e con lo stesso spirito»[63]. Con questo procedeva alla riforma della regola cistercense per un’osservanza che riguardava solo lui, cercando di coniugarla con quella della comunità. Non poteva certo mutare la logistica comunitaria, ma il programma spirituale con i ritagli di vita eremitica estorti a dom James, questo sì, poteva metterlo in atto.
 
Sapeva di non poter lasciare facilmente Gethsemani: si preoccupa infatti dell’effetto che avrebbe potuto provocare il suo abbandono: interpretato sicuramente come rinuncia alla vocazione, o come un ritorno al mondo; ed anche se molti in quegli anni si chiedevano cosa ci facesse uno come Merton a Gethsemani, lui tuttavia non voleva essere altro che un monaco. Un monaco che magari non aveva nulla in comune con dom James e con gli ideali pragmatici dell’Ordine. Di fatto  la prospettiva eremitica non era contemplata istituzionalmente fra i trappisti, era mal tollerata nei pochi casi in cui si era realizzata e in genere mal vista; per lui però significava «rompere con tutte le finzioni e le false apparenze, con tutti gli stucchi e l’ipocrisia latente nella comunità in cui vivo». Pensava:
 
«Fondamentalmente non sono davvero un monaco e un cristiano: va bene rigettare le forme esteriori nulle, ma c’è poi qualcosa all’interno? Forse no»[64]. Il monachesimo, così come la Chiesa, non poteva ridursi alla forma esteriore di un apparato istituzionale perfetto che porta avanti «una serie di routine comunitarie che assorbono tutta la giornata in un monastero»[65]. Bisognava impegnarsi in qualcosa d’altro, di più serio, di più attinente alla stessa vocazione cristiana. E non era questione di luogo, di adattamento né di pace. Era questione di verità, di pazienza, di umiltà. Guardandosi nello specchio dell’anima si dice: «Smettila di cercare di “adattarti”. Adattarti a che? Alla finzione generale?»[66].
 
  

    
[1] T. Merton, Le acque di Siloe, Garzanti, Milano  19625.
[2] F. R. de Chateaubriand, Vita di Rancé, Bompiani, Milano 1982.
[3] Ivi, p. 76.
[4] Ivi, pp. 144 e 96.
[5] Ivi, pp. 97-98.
[6] Merton a Daniel Barrigan, in T. Merton, The Hidden Ground of Love: Letters on Religious Experience and Social Concerns, scelte e curate da William H. Shannon, Strauss & Giriux, New York 1990, p. 337. Per la relazione dell’abate di Maria Laach Ildefonso Herwegen con il nazismo cfr. A. Angenendt, Liturgia e storia. Lo sviluppo organico in questione, Cittadella Editrice, Assisi 2005, pp. 98-100.
[7] F. R. de Chateaubriand, Vita di Rancé, op. cit., pp. 122-123.
[8] Ivi, p. 124.
[9] Ivi, p. 137.
[10] Ivi, pp. 136 e 145.
[11] Ivi, p. 184.
[12] T. Merton, Le acque di Siloe, op. cit., p. 140.
[13] Ivi, p. 91.
[14] Ivi, p. 145.
[15] Ivi, p. 147.
[16] Cfr. ivi, pp. 158-159.
[17] Cfr. ivi, pp. 172. 177.
[18] T. Merton, Diario asiatico. Dagli appunti originali, Gabrielli, San Pietro in Cariano 2015, p. 265.
[19] Cfr. il capitolo su De Rancè in T. Merton, Le acque di Siloe, op. cit., pp. 61-80.
[20] T: Merton, Diario di un testimone colpevole, op. cit., p. 16.
[21] Ivi.
[22] Ivi.
[23] R. Panikkar, La sfida di scoprirsi monaco, Cittadella, Assisi 1991, p. 20
[24] T. Merton, Il segno di Giona, op. cit., p. 119.
[25] T. Merton, Diario di un testimone colpevole, op. cit., pp. 47- 48.
[26] Ivi, p. 79.
[27] Cfr. ivi, p. 182.
[28] Cfr. T. Merton, Il segno di Giona, op. cit., pp. 5-8.
[29] Cfr.  T Merton, Diario di un testimone colpevole, op. cit., p. 322.
[30] Cfr. ivi, p. 48.
[31] Cit. in M. W. Higgins, Sangue eretico, op. cit., p. 37.
[32] T. Merton, Diario di un testimone colpevole, op. cit., p. 46.
[33] Ivi.
[34] Ivi, p. 79.
[35] T. Merton, Scrivere è pensare, op. cit., p.307.
[36] T: Merton, Diario secolare, Garzanti, Milano 1960, p. 146.
[37] Ivi, p. 143.
[38] Ivi, pp.153-154.
[39] T. Merton, Il segno di Giona, op. cit., p. 7.
[40] T. Merton, Diario di un testimone colpevole, op. cit., p. 9.
[41] T: Merton, Diario secolare, op. cit., p. 153.
[42] Ivi, p. 156.
[43] M. W. Higgins, Sangue eretico, op. cit., p. 102.
[44] T. Merton, Il segno di Giona, op. cit., p. 305.
[45] T. Merton, Il coraggio della verità, Piemme, Casale Monferrato 1997, p. 285.
[46] Cfr.  Diario di un testimone colpevole, op. cit., p. 48.
[47] T. Merton, Il segno di Giona, op. cit., p. 101.
[48] Cfr. H. F. Peters, Mia sorella mia sposa. La vita di Lou Andreas Salomè, Mondadori, Milano 1980.
[49] T. Merton, Scrivere è pensare, op. cit., p.210.
[50] Cfr.  Diario di un testimone colpevole, op. cit., p. 337.
[51] T. Merton, Problemi dello spirito, op. cit., p. 10.
[52] Cfr. J. Forest, Vita di Thomas Merton, Lindau, Torino 2009, p. 186.
[53] T. Merton, Scrivere è pensare, op. cit., p. 179.
[54] Cfr. J. Forest, Vita di Thomas Merton, op cit., p. 196.
[55] T. Merton, Il segno di Giona, op. cit., p. 5.
[56] T. Merton, Scrivere è pensare, op. cit., pp. 186-187.
[57] Lettera a Daniel Berrigan del 25 giugno 1963, in T. Merton, The Hidden Ground of Love: Letters on religious Experience and Social Concerns, a cura di W. Shannon, Farrar, Straus & Giroux, New York 1985, pp. 78-79.
[58] T. Merton, Scrivere è pregare, op. cit.,  p. 189.
[59] T. Merton, La pace nell’era postcristiana, Quiqajon Comunità di Bose, Magnano 2005, pp. 160-161.
[60] T. Merton, Fede, resistenza, protesta, Morcelliana, Brescia 19702, p. 176.
[61] T. Merton, La pace nell’era postcristiana, op. cit., p. 160.
[62] T. Merton, Scrivere è pensare, op. cit., pp. 186- 187.
[63] Ivi, pp. 167-168.
[64] Ivi, p. 180.
[65] Ivi, p. 185.
[66] T. Merton, Diario di un testimone colpevole, op. cit., p. 263.
 
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